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13 dicembre 2014

Obesità: se fosse un problema celebrale legato all'appetito e sazietà?

Le cause dell'obesità sono generalmente riconducibili a una normale regolazione da parte dei circuiti celebrali che controllano l'appetito e la sazietà.
In alcuni casi questi sono alterati. Come?

Ora cercherò di spiegarvelo scientificamente nella maniera più semplice possibile...

Grelina: sostanza secreta dallo stomaco prima del pasto
Leptina: Rilasciata nella maggior parte dei casi dalle cellule adipose dopo l'assunzione di cibo.
La prima sostanza rappresenta una segnale di "Fame", mentre la seconda di"Sazietà".
I recettori per queste sostanze sono concentrati in piccoli gruppi di neuroni nell'ipotalamo. Queste cellule sensibili alla grelina e alla leptina modulano l'attività di neuroni che portano alla secrezione di un particolare ormone che regola la sensazione di Fame e Sazietà.

Alcuni studi che attraverso un'analisi genetica di individui con casi estremi di obesità hanno messo in evidenza mutazioni di uno o più geni per la produzione di leptina o per il suo recettore. di conseguenza questi individui hanno uno scarso senso di sazietà dopo i pasti e sono quindi incapaci di regolare l'assunzione di cibo sulla base di segnali che non siano quelli relativi alla distensione gastrica, dolore e osmolarità plasmatica.

Sebbene non esistono al momento soluzioni farmacologiche efficaci, si spera che l'educazione a un corretto regime alimentare e a una vita attiva possano aiutare a combattere questo problema di salute pubblica sempre più comune e spesso non trattabile.

Questa non deve essere una scusa.....ma un motore per prestare più attenzione a quello che si fa e si mangia!

Marchiori M.

4 febbraio 2014

Il Senior e le attività motorie adattate

Il valore preventivo delle attività motorie e sportive costituisce un'evidenza scientifica, ormai ampiamente riconosciuta in letteratura, da cui emergono anche i parametri essenziali del carico minimo raccomandato.
Diventa pertanto interessante chiarire gli effetti dei differenti protocolli di attività motorie sulle capacità fisiche del soggetto adulto e anziano.  Tali analisi si rende necessaria per ottenere preziose indicazioni operative e metodologiche per la strutturazione di programmi di attività motorie destinate ai Senior, che possono essere supportati da un coerente percorso scientifico e didattico.


Gli studi e le Review più recenti suggeriscono i vantaggi derivanti dai Training di Forza: per alcuni autori tale allenamento può costituire una reale ed efficace contromisura per alcune conseguenze patologiche che si associano alla sindrome metabolica., in quanto capaci di ridurre il rischio cardiovascolare, l'insulino resistenza e il grasso viscerale o l'obesità addominale; inoltre, l'allenamento della forza sarebbe in grado di far diminuire la fibromialgia, riducendo la sensazione di dolore e di fatica, innalzando la qualità della vita; il training di forza incrementerebbe pure la densità minerale ossea attraverso la sollecitazione in trazione del sistema muscolotendineo; infine, sarebbe anche capace di determinare benefici nelle funzioni cognitive e in alcune dimensioni della personalità.

Per le evidenze raccolte in tale Review, i vantaggi ottenuti attraverso il training di forza sono trasferibili sia nella capacità di prolungare la massima distanza coperta attraverso il cammino sia nella riduzione del tempo necessario a passare dalla stazione seduta a quella eretta sia in una maggiore e migliore mobolità individuale. Infine, vi sarebbe anche una concreta ed evidente risposta ipertrofica nell'ordine di circa il 10% sia per fibre di tio I che di tipo II.

Sannicandro
da Scienza e Sport
Gen-Feb-Marz 2014

29 agosto 2013

Il mito degli antiossidanti

La teoria dell'invecchiamento frutto del danno ossidativo, detta anche dei radicali liberi, può essere attribuita a Denham Harman, che nel 1945 rimase affascinato da un articolo sulle potenziali cause dell'invecchiamento letto su una copia del "Ladies'Home Journal"comprata dalla moglie.
All'epoca Harman aveva 29 anni, lavorava come chimico alla Shell Development e non aveva molto tempo per riflettere sulla questione. Ma nove anni dopo,laureatosi in medicina, fu assunto come ricercatore associato all'università della California a Berkley, dove iniziò a riflettere più seriamente sulla scienza dell'invecchiamento. E un mattino, mentre sedeva nel suo ufficio, ebbe una sorta di illuminazione: l'invecchiamento deve essere guidato dai radicali liberi.
Supponiamo che i radicali liberi si accumulino durante l'invecchiamento senza necessariamente esserne la causa: ma allora quali effetti hanno? Finora la domanda ha potato ipotesi più che a dati definivi. "I radicali liberi fanno effettivamente parte del meccanismo di difesa" sostiene Harman. In alcuni casi queste molecole potrebbero essere prodotte in risposta al danno cellulare, come segnale ai meccanismi di difesa propri dell'organismo. In questo scenario, i radicali liberi sarebbero una conseguenza del danno collegato all'età e non solo alla causa. In grandi quantità, tuttavia, afferma Harman, i radicali liberi possono provocare anche danni.
L'idea che danni minori possano aiutare l'organismo a resistere a danni maggiori non è nuova. In effetti, è così che i muscoli si sviluppano come risposta a un aumento costante della fatica cui sono sottoposti. Molti atleti della domenica,d'altro canto, hanno imparato a proprie spese che sottoporre improvvisamente il corpo a un brusco aumento di attività fisica, dopo un'intesa settimana seduti sulla scrivania, è quasi sempre un ottimo modo per provocare strappi ai polpacci e stiramento ai tendini, due lesioni serie fra le molti possibili.
Nel 2002 ricercatori dell'Università del Colorado a Boulder hanno esposto brevemente dei vermi al calore o a sostanze chimiche che inducevano la produzione di radicali liberi dimostrando che ciascuno di questi fattori di stress ambientale accresceva la capacità dei vermi di sopravvivere a danni più gravi in un secondo tempo. Questi interventi aumentavano l'aspettativa di vita dei vermi anche del 20%, ma non è chiaro in che modo influissero sui livelli generali di danno ossidativo perché i ricercatori non hanno stimato questi cambiamenti. Nel 2010, ricercatori dell'Università della California a San Francisco e della Pohang University of Science e Tecnology in Corea del Sud, hanno pubblicato un articolo sulla rivista"Current Biology" in cui affermano che alcuni radicali liberi attivano un gene chiamato HIF-1, responsabile diretto dell'attivazione di molti geni coinvolti nei meccanismi di riparo cellulare, fra cui uno che concorre a riparare il DNA mutato.
I radicali liberi potrebbero anche spiegare in parte perchè svolgere attività fisica fa bene. Per anni i ricercatori hanno ipotizzato che l'attività fisica fosse salutare a dispetto della produzione di radicali liberi, non grazie a questi ultimi. Ma in uno studio pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences"nel 2009 Michael Ristow, docente esperto in nutrizione alla Friedrich Schiller Universiy di Jena, in Germania, assieme ai suoi colleghi, ha confrontato il profilo fisiologico di sportivi che avevano assunto antiossidanti con quello di atleti che non lo avevano fatto. Ristow aveva osservato che gli sportivi che non avevano assunto vitamine godevano di una salute migliore; fra l'altro, gli atleti che non avevano assunto supplementi mostravano meno indizi di un possibile sviluppo di diabete 2.
Uno studio condotto da Beth Levine, microbiologa dell'University of Texas Southwestern Medical Center, ha dimostrato che l'attività fisica fa impennare anche un processo biologico chiamato autofagia, in cui le cellule reciclano pezzi di proteina consumati e altri frammenti subcellulari, vale a dire lo strumento usato per digerire e smantellare le vecchie molecole: i radicali liberi. Per complicare le cose ancora un po', tuttavia, la ricerca di Levine indica che l'autofagia riduce anche livelli generali di radicali liberi, e suggerisce che le tipologie e le quantità di radicali liberi in parti diverse della cellula possono giocare ruoli diversi, a seconda delle circostanze.

Se è vero che i radicali liberi non sono sempre dannosi, allora può darsi che i loro antidoti, gli antiossidanti, non facciano sempre bene: una possibilità preoccupante, dal momento che il 52% dei cittadini degli Stati Uniti assume quotidianamente dosi consistenti di antiossidanti come vitamina A e beta-carotene, sotto forma di supplementi multivitaminici. Nel 2007 il"Journl of the Medical Association" ha pubblicato una revisione sisematica di 68 trial clinici che ha concluso che l'assunzione di antiossidanti non riduce il rischio di morte. Quando gli autosi si sono limitati ad analizzare soltanto trial per cui vi erano minori probabilità di deviazioninei risultati- quelli in cui l'assegnazione dei partecipanti a un gruppo braccio sperimentale era chiaramente casuale e in cui nè i ricercatori nè i partecipanti saprevano che avrebbe assunto che cosa- hanno scoperto che alcuni antiossidanti erano correlati a un maggior rischio di morte.
Diverse organizzazioni statunitensi, fra cui l'American Heart Association e la American Diabetes Association, raccomandano oggi di non assumere integratori a base di antiossidanti se non per curare un'avitaminosi ben diagnosticata. "I lavori presenti in letteratura stanno fornendo prove crescenti che questi integratori- in particolare a elevate dosi- non sortiscono necessariamente gli effetti benefici che si pensava", dice Demetrius Albanes, ricercatore Senior al Nutritional Epidemiology Branch del National Cancer Institute. Invece, aggiunge, "siamo diventati profondamente consapevoli dei potenziali svantaggi".
Senza ulteriori prove, comunque, è difficile immaginare sia una situazione in cui gli antiossidanti possano cadere completamente in disgrazia sia una situazione in cui gli antiossidanti possano cadere completamente in disgrazia sia una situazione in cui la maggior parte di coloro che studiano l'invecchiamento sia un processo assai più complesso e intricato di quanto immaginasse Harman quasi sessant'anni or sono.
Gems, per esempio, ritiene che le prove puntino verso una nuova teoria secondo cui l'invecchiamento deriverebbe dall'eccessiva attività di certi pocessi biologici coinvolti nella crescita e nella riproduzione. Ma qualunque sia l'idea-o le idee- per cui propendono i ricercatori mentre vanno avanti nelle loro ricerche, "il continuo processo di scavo degli scienziati che esaminano i fatti sta spostando il settore verso orizzonti un po' più strani ma un po' più reali", dice Gems, "e un'inattesa boccata d'aria fresca".


Melinda Wenner Mojer
Le scienze 
Aprile 2013




16 agosto 2013

Il diabete di tipo 2 accelererebbe il declino cognitivo


Secondo uno studio olandese, le persone con diabete di tipo 2 andrebbero incontro a un’accelerazione del declino delle facoltà cognitive, e la durata della malattia ne influenzerebbe l’evoluzione. Martin van Boxtel, del Dipartimento di Psichiatria e Neuropsicologia dell’Università di Maastricht, che ha coordinato lo studio, spiega: «Con il diabete di tipo 2 aumenta il rischio di deterioramento cognitivo, ma i meccanismi alla base del fenomeno non sono ancora chiari, sebbene la malattia macro e microvascolare giochi probabilmente un ruolo importante, data la sua presenza sia nel diabete sia nella demenza. L’ipotesi è che la disfunzione cognitiva diabete-correlata richieda anni per emergere, e che il follow-up della maggior parte degli studi sia stato troppo breve per rilevare differenze nel declino cognitivo. Sembra comunque che il tempo di esposizione alla malattia diabetica svolga un ruolo importante nell’evoluzione del declino cognitivo, e questo potrebbe fornire una finestra utile per la prevenzione e il trattamento precoce dei deficit cognitivi legati al diabete».
Secondo Boxtel sono contrastanti i risultati degli studi sull’evoluzione del danno cognitivo nei diabetici, poiché secondo alcuni il declino avviene secondo i ritmi normali dell’invecchiamento, e secondo altri, invece, avviene in modo accelerato in confronto a quello dei controlli.
I ricercatori dell’università olandese hanno studiato i dati relativi allo stato cognitivo di 1.290 partecipanti al Maastricht Aging Study, un progetto in corso dal 1992 per valutare l’influenza dell’età sulla memoria; i dati sono stati raccolti all’inizio della ricerca, dopo sei e dopo 12 anni di follow-up. 68 dei partecipanti avevano già il diabete all’inizio dell’osservazione, altri 54 lo hanno sviluppato nel corso dei primi sei anni, e altri 57 entro il dodicesimo anno.
I primi 68 hanno mostrato un declino più marcato rispetto agli altri, in particolare per quanto riguarda la velocità di elaborazione delle informazioni e per la diminuita funzione esecutiva, la capacità cioè di progettare e attuare uno scopo, mentre quelli con diabete incidente non hanno mostrato disturbi nei domini cognitivi, tranne un declino modesto della velocità di elaborazione delle informazioni. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Diabetes Care.

Spauwen PJ et al, "Effects of type 2 diabetes on 12-year cognitive change:results from maastricht aging study" 
Giugno 2013

24 luglio 2013

Cuore a rischio per gli uomini che saltano la colazione

Allarme cardiologico più elevato per chi salta regolarmente la colazione del mattino. A mettere in guardia da questo pericolo è uno studio Usa appena pubblicato da ricercatori della Harvard School of Public Health secondo il quale non far colazione è una cattiva abitudine che accresce del 27% il rischio di malattie al cuore ed espone ad attacchi cardiaci fatali più frequenti della media. «Saltare regolarmente la colazione mette le persone a rischio di pressione alta, diabete, colesterolo alto, fattori che possono condurre a malattie cardiache» ha spiegato al The Indipendent Leah Cahil,autrice principale dello studio.
LO STUDIO - La ricerca, condotta fra il 1992 e il 2008 su un campione di 27.000 individui di sesso maschile fra i 45 e gli 82 anni, disposti a partecipare a un'indagine complessiva sull'alimentazione e le sue conseguenze sulla salute, ha rivelato un aumento del 27% del fattore di rischio cardiologico - e in particolare di mortalità per insufficienza coronarica - fra coloro che erano soliti saltare la prima colazione. I ricercatori hanno individuato che nella categoria di chi salta la colazione rientrano con maggiori probabilità fumatori, single, consumatori di alcol, persone sedentarie. Gli scienziati sono comunque stati in grado di isolare questi altri fattori sugli effetti negativi sulla salute. «Quando il fisico è a digiuno si attiva una "modalità protettiva" che fa aumentare la pressione del sangue, di insulina e colesterolo. Se non si fa colazione al mattino per il fisico è un ulteriore sforzo dopo un digiuno durato tutta la notte» ha chiarito Leah Cahil. Ripetere negli anni questa cattiva abitudine può sviluppare un'insulino-resistenza che porta a colesterolo alto, pressione alta, tutti fattori di alto rischio cardiaco.
SPUNTINI DI NOTTE - Gli studiosi hanno anche scoperto che gli spuntini a tarda notte possono avere conseguenze pure peggiori di saltare la colazione. Sebbene un piccolo campione abbia confessato di mangiare di notte, si è visto che in questi casi il rischio di malattie cardiache aumenta del 55%. «Sovraccaricare il fisico alimentandosi di notte - spiega ancora la ricercatrice - non permette al corpo di digerire correttamente, e anche in questo caso la cattiva abitudine alimentare può causare gli stessi effetti: ipertensione, aumento di peso, cambiamenti dei livelli di zucchero nel sangue e dunque maggiore rischio cardiologico»
Cristina Marrone
www.corriere.it
23 luglio 2013

24 giugno 2013

Diabete: l'esercizio fisico 'allena' il grasso e lo rende 'buono' per il metabolismo

L'esercizio fisico può "allenare" il grasso e renderlo buono in modo che provochi un miglioramento del metabolismo. È quanto emerso da due nuovi studi condotti sia sui topi che sulle persone e presentati oggi al 73° Congresso dell'American Diabetes Association (Ada) in corso a Chicago fino al 25 giugno. Attraverso questi studi, finanziati dall'Ada e dal National Institutes of Health, si è scoperto che nei topi che si erano esercitati sulla ruota per 11 giorni e negli uomini che avevano svolto 12 settimane di allenamento sulla cyclette si è verificato un imbrunimento del tessuto adiposo bianco, che ha poi provocato dei profondi cambiamenti nel modo in cui il grasso stesso si "comporta" all'interno del corpo.

Il grasso bruno, infatti, è metabolicamente più attivo rispetto a quello bianco che si forma quando facciamo vita sedentaria. "I nostri risultati dimostrano che l'esercizio non ha effetti benefici soltanto sui muscoli, ma anche sul grasso" ha spiegato Kristin Stanford del Joslin Diabetes Center di Boston. "E' evidente che quando il grasso si allena diventa bruno e metabolicamente più attivo".

"Allenare" il grasso.
 Dunque, lo svolgimento di un'attività fisica costante - da sempre ritenuta fondamentale per la prevenzione ma anche per la cura del diabete - diventa ancor più strategica per questa malattia cronica che riguarda 371 milioni di persone in tutto il mondo e 3,3 milioni di italiani. "Abbiamo sempre saputo che l'esercizio fisico è importante - conferma Laurie Goodyear della Harvard Medical School - ma ciò che abbiamo dimostrato con questi studi è l'effetto positivo che svolge sul grasso. Non si tratta del grasso addominale che è quello cattivo e può causare diabete o altre forme di insulino-resistenza. Si tratta piuttosto del grasso sottocutaneo che in seguito al movimento si adatta, scatenando un effetto metabolico positivo".

Gli studi nei topi hanno dimostrato che il grasso bruno è associato a un miglioramento della composizione corporea, a una diminuzione della massa grassa e a una maggior sensibilità all'insulina. Dunque, anche se non si perde peso, in realtà facendo ginnastica si allena il proprio grasso a diventare metabolicamente attivo e, quindi, a produrre risultati positivi per la nostra salute.

La terapia del movimento. Di recente anche due studi italiani, uno dell'università di Perugia e l'altro dell'università La Sapienza di Roma, hanno dimostrato che per prevenire il diabete è sufficiente camminare 150 minuti alla settimana. E anche nei pazienti con diabete di tipo 2 l'attività fisica migliora il controllo glicemico e riduce il rischio per malattia cardiovascolare. Si è visto che l'esercizio aerobico, come camminare a passo svelto, la corsa o la bicicletta, serve a ridurre il peso, in particolare la massa grassa addominale, migliorae l'efficienza del sistema cardiovascolare, il controllo metabolico e riduce i fattori di rischio cardiovascolare.

L'esercizio di resistenza, come il sollevamento pesi o gli esercizi con bande elastiche, invece, serve ad aumentare la forza muscolare e quindi a prevenire infortuni e cadute, ad aumentare la massa muscolare e di conseguenza il metabolismo basale, cioè la spesa energetica a riposo e a ridurre la glicemia.

L'educazione terapeutica. Da anni ormai gli specialisti sostengono la necessità di un approccio terapeutico che non sia più soltanto farmacologico, ma basato sull'educazione terapeutica. "Come per tutte le malattie croniche, anche per il diabete è fondamentale che il paziente sia educato a gestire la propria patologia sia imparando a misurare la glicemia e a prendere i farmaci, ma anche imparando cosa mangiare e come fare attività fisica", spiega Nicoletta Musacchio, responsabile dei servizi di diabetologia degli Istituti clinici di perfezionamento di Milano, che da anni si occupa di educazione terapeutica.

Per raggiungere questo obiettivo, servono modelli organizzativi che prevedano un vero e proprio percorso di addrestamento che serve al paziente per imparare a gestire la malattia ed ai medici per personalizzare sempre di più le terapie. La necessità di "cucire su misura" la cura del paziente diabetico è stata ribadita anche dall'Ada. "Le indicazioni date agli specialisti sono molto precise: è necessario fenotipizzare il paziente. Questo vuol dire considerare non solo il diabete ma il quadro generale, cioè l'età, le altre patologie presenti e il tipo di vita che si conduce", conferma Musacchio.


www.repubblica.it
22 giugno 2013